Ammappala #5
AnGERA - SESTO CALENDE
La quinta uscita del progetto Ammappala ci ha portati a camminare da Angera a Sesto Calende, in una giornata a stretto contatto con un materiale antichissimo e potente: la pietra. L’uscita era accessibile a persone ipovedenti o cieche e all’insegna dell’arte e dell’arteterapia. La sfida? Provare a godere di una collezione di arte scultorea senza partire necessariamente dalla vista, anzi, provando ad esplorare le possibilità di fruizione che si aprono a noi proprio quando gli occhi si chiudono.
Il percorso ci ha portati ad attraversare la riserva della Bruschera, un’area umida alle porte di Angera, rifugio per uccelli acquatici e luogo in cui, nel 1776, Alessandro Volta fece delle importanti scoperte a proposito dei gas naturali infiammabili.
Superata quest’area, il tracciato si snoda al margine di alcuni campi, per poi salire verso la collina del Campaccio a Taino, dove, immersi nel bosco, riposano i resti di un ex gigante industriale: la polveriera Montedison.
Si tratta di un complesso immenso in un punto panoramico mozzafiato: di fronte il monte Rosa, dall’altro lato della sponda Arona e sotto, un po’ spostata a destra, la Rocca di Angera. La polveriera fu fondata nel 1914 pochi mesi prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, dalla ditta francese Davey Bickford Smith. All’inizio la produzione era modesta, ma non fece che crescere complice anche l’inizio del secondo conflitto: negli anni di massimo splendore arrivò ad impiegare fino a 2mila addetti, praticamente tutta la popolazione di Taino! La storia di questo luogo è complessa, data la natura pericolosa di ciò che qui veniva prodotto, famoso è l’incidente del 1935, nel quale rimasero uccise in un’esplosione 35 operaie, prevalentemente donne, ma anche per il legame che la popolazione nutre verso questo luogo che per tanti anni ha garantito un lavoro. La fabbrica ha chiuso nel 1972 e di lei ora restano 7mila metri quadrati di ruderi, vecchi laboratori, camminamenti e cunicoli in stato di abbandono.
Proseguiamo nel verde su sentieri nel bosco, con noi c’è Andrea amante della natura e degli sport outdoor. Andrea, che a causa di una malattia ha perso la vista quando era ancora un bambino, è stata la nostra guida nel definire questa uscita, con lui abbiamo fatto il sopralluogo per verificare l’accessibilità del percorso ad un pubblico di persone cieche o non vedenti: è stato bellissimo trasformare la progettazione in realtà e poter condividere questa esperienza con tutto il gruppo!
“Erano preistorici ma non erano cretini”
Impariamo che per guidare chi non può osservare con lo sguardo il mondo intorno, dobbiamo sostituirci ai suoi occhi. E questo vale non solo per eventuali ostacoli che potrebbero intralciare il cammino, come pietre, radici o rami sporgenti, ma anche per quegli aspetti che lo sguardo cattura senza rendersene conto, quali i colori, luci e ombre e quello che si scorge nel paesaggio. Passo dopo passo, Andrea ci insegna ad osservare il bosco attivando gli altri sensi: chi ci vede tende a fare affidamento al suo colpo d’occhio e non si dà il tempo per ascoltare un suono o un rumore, annusare l’aria, toccare il terreno o il tronco di un albero.
Lentamente discendiamo verso il sasso di Preja Buia, un monumento naturale regionale costituito da un masso erratico imponente, che indica un luogo ricco dei segni di culture antichissime: nei sassi circostanti diverse coppelle e incisioni raccontano di un luogo magico già in epoca pre-romana.
Simona Gamberoni, la nostra guida, ci racconta come questa zona fosse la più frequentata dall’uomo di tutto il territorio dei laghi già in epoca antichissima, come dimostrano testimonianze datate a circa 10 mila anni fa. Con la scoperta dell’agricoltura questi nostri lontani antenati diventano stanziali e iniziano ad edificare le famose palafitte, oggi bene UNESCO. Costruiscono non sull’acqua perché, come ci ricorda Simona, “erano preistorici ma non erano cretini!” e quindi lo fanno a ridosso della riva, con un lato della casa appoggiato al fianco della collina e il fronte palizzato. Riavvolgiamo il nastro del tempo e arriviamo all’età dei metalli: è qui che esplode la meravigliosa cultura di Golasecca. Si trattava di popolazioni celtiche, provenienti da nord e che si insediano in tutta la parte sud del Lago Maggiore, avendo una colonia nelle attuali Como e Bellinzona. Da qui controllavano i commerci tra mondo Greco ed Etrusco e quello al di là delle Alpi. Avevano addirittura inventato una lingua per permettere a queste popolazioni di comunicare tra loro e ne abbiamo un esempio nella stele di Vergiate (ora custodita ai Musei Civici di Villa Mirabello).
Forse furono proprio loro a scolpire queste pietre e attribuirvi dei significati magici? La leggenda narra che questo luogo fosse adorato per ingraziarsi la fertilità: sui fianchi dei massi delle lavorazioni dell’uomo hanno ricavato degli scivoli da dove si pensa le donne si lasciassero scendere. Sempre nella zona è stata rinvenuta una tomba che con buona probabilità apparteneva ad una ad una sacerdotessa Longobarda, il che fa pensare che questo luogo sia stato adorato ben oltre il periodo romano; non solo: abbiamo ancora fonti risalenti al 1800 che ci dicono come la Chiesa cercasse di arginare i riti che ancora si facevano su questi sassi. Quello che è certo è che questo gigantesco masso alle civiltà di allora come a noi oggi appare chiaramente fuori contesto: chi poteva averlo portato fino a lì e perché? Di pietra verde dalla zona del Lucomagno, la geologia ci spiega non essere caduto dal cielo bensì trasportato dal grande ghiacciaio del Verbano che, una volta sciolto, ha disseminato massi erratici come la Preja Buja un po’ in tutta la zona.
Con ancora la testa assorta tra pensieri e riflessioni sulla magia delle pietre, ci dirigiamo verso un altro luogo che custodisce “pietre preziose”. Stiamo parlando della Fondazione Giancarlo Sangregorio nata nel 2011 per custodire e divulgare l’opera del grande artista milanese che scelse Coquo come luogo di vita e creatività fino alla morte. La sede della Fondazione è anche una sorta di casa museo dove è possibile immergersi negli scorci che hanno animato la vita quotidiana di Sangregorio e ammirare una ricchissima collezione di opere tribali provenienti dai 4 angoli del mondo.
Qui ci raggiungono Federica e Maria di Artecondivisibile, due arteterapiste per guidarci in un visita un po’ fuori dall’ordinario: osservare le opere scultoree in esposizione senza avvalerci della vista.
Andrea ci aiuta rompendo il ghiaccio: si avvicina alla statua e la abbraccia, ci entra in contatto con tutto il suo corpo, e mentre muove le mani sulle linee di pietra ci racconta, ci racconta quello che vede. “Procedo per piccole parti che poi vanno a costruire l’insieme” ci dice, “al contrario di come farebbe chi usa la vista, prima percepisco i dettagli e da quelli mi faccio un’idea di cosa io abbia di fronte, usando anche un filo di immaginazione”.
L’astrazione delle sculture di Sangregorio si prestano perfettamente a questo esercizio, perché ognuna può dare adito ad interpretazioni differenti e cade il concetto di giusto e di sbagliato: si sta parlando di percezioni.
Usciamo nello stupendo giardino della villa con un affaccio inedito sul punto in cui il Ticino diventa emissario del lago e ci dirigiamo verso il portico dell’Atelier per prendere parte al laboratorio. Ci sediamo in cerchio, Federica e Maria affidano a ciascuno di noi una pallina di creta: ad occhi chiusi la soppesiamo, ne sentiamo la consistenza e l’odore. La richiesta è di modellare una forma, senza pretese, la prima cosa che ci viene in mente di voler trasmettere della giornata trascorsa insieme. Dopo alcuni minuti a coppie ci scambiamo le opere: dobbiamo indovinare al tatto che cosa è stato prodotto dal nostro compagno/a.
Concludiamo questa uscita densa di esplorazioni in tante forme, ridendo delle nostre capacità artistiche ma molto seri nell’affermare che si schiudono mondi quando impariamo ad osservare senza usare lo sguardo.